Matteo Codignola, "Vite brevi di tennisti eminenti", Adelphi

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Matteo Codignola, "Vite brevi di tennisti eminenti", Adelphi


 Il libro consta di una ventina di brevi biografie di tennisti attivi nel corso degli anni cinquanta del Novecento, nel pieno dell'era pre-Open, quando i protagonisti del circuito internazionale - ancora rigorosamente ispirato al più puro dilettantismo, almeno sulla carta - erano continuamente tentati dal passaggio al circo itinerante delle sfide tra professionisti, allestito da Jack Kramer, assai più remunerativo (ma anche un tantino asfittico, visto che prevedeva partite ripetute sempre tra gli stessi giocatori).
 Matteo Codignola, alla ricerca di una chiave per raccontare la sua grande passione per il tennis (che come tutte le grandi passioni, rischia costantemente di diventare un'ossessione, per chi la coltiva) senza lasciarsi imprigionare nella camicia di forza dello storicismo e senza cedere alle lusinghe della libidine romanzesca, trova l'occasione di un approccio originale alla materia grazie a una vecchia valigia di cuoio, scovata da un amico sui banchi del mercatino di Cormano, e contenente una busta gialla con numerose foto d'agenzia che ritraggono celebri tennisti in azione negli anni del dopoguerra.
 A partire da queste foto, riesce ad andare oltre i cliché consolidati dei libri sul tennis (che a volte utilizzano il tennis come pretesto per parlare d'altro, e altre volte sono semplicemente noiosi), e a proporre qualcosa di diverso da quanto di mirabile prodotto dal maggior conoscitore italiano di questa disciplina, Gianni Clerici, lo Scriba (citato una sola volta, anche se Codignola lo omaggia e si dichiara suo amico).
 Le foto, infatti, dotate di uno straordinario potere evocativo, diventano il pretesto per richiamare alla memoria le storie - spesso singolari e affascinanti - legate ai personaggi ritratti, e intrecciate tra loro fino a formare una fitta trama, simile agli scambi che si succedono nel corso di una partita, e comunque perfetta per assecondare l'indole divagante, il gusto per l'aneddoto memorabile e per la curiosità erudita, la sensibilità idiosincratica e il piacere per la citazione raffinata espressi nella scrittura dell'autore.
 Il punto di forza del testo è proprio la scrittura, che mantiene sempre un livello altissimo, tanto sotto l'aspetto della lucidità e della duttilità stilistica, quanto sotto quello della densità narrativa e descrittiva che riesce a estrinsecare: bastano a volte poche parole per dare vita e conferire vivacità a una figura del passato, e per far sentire vicinissime a noi tutte le vicende che ruotano intorno ad essa.

Matteo Codignola

 Si riesce così a raccontare l'eleganza innata e l'indipendenza assoluta di Gottfried von Cramm (che non si iscrisse mai al NSDAP, nonostante le ripetute pressioni di Goering perché lo facesse), e il radicale anticonformismo di Torben Ulrich - tennista alternativo e "sensitivo" per eccellenza, e padre di Lars, fondatore del gruppo musicale dei Metallica -; la meravigliosa indolenza di Beppe Merlo (che giocava con una racchetta dall'ovale più piccolo di quelle dei colleghi, e con le corde talmente poco tese da provocare, all'impatto con la pallina, al posto del classico schiocco, un tonfo lieve, soffice e attutito), e la fedeltà a se stesso e al suo gioco di Vic Seixas; la grazia di Ken Rosewall, e l'ambigua repulsione di Paul Gallico per quanto supponeva che il tennis avesse di strano, di gentile, o addirittura di "femminile"; la delicata psicologia del tennista - esemplificata dai tormenti e dai fantasmi di Tony Trabert -, e l'aeriforme bellezza del gioco - illustrata dalla propensione per la leggerezza del gesto di Eric Sturgess (che durante la guerra, da ufficiale dell'aviazione sudafricana, fu prigioniero nel leggendario Stalag Luft III, il campo di concentramento de La grande fuga) -; il complesso rapporto tra Maureen Connolly, "Little Mo", e la sua allenatrice Eleanor "Teach" Tennant, e lo scandalo suscitato dal gonnellino e dai pizzi indossati a Wimbledon nel 1949 dalla bellissima Gertrude Augusta "Gussy" Moran (da allora, in inglese, "gussy up" significa "agghindarsi", anche se i principali dizionari sembrano ignorare la vera origine di questo modo di dire idiomatico); la forza di carattere e la presenza di spirito di Gardnar Mulloy (capace di ricordare allusivamente a una giovane regina Elisabetta, che lo premiava in qualità di vincitore del doppio a Wimbledon nel 1957, il pomeriggio in cui aveva "flirtacchiato" con lei senza riconoscerla, quando ancora non era regina), e la perfetta sobrietà e l'innato understatement di Jarolslav Drobny (campione di hockey, oltre che di tennis, capace senza battere ciglio di ascoltare a lungo con pazienza i clienti del suo negozio di articoli sportivi che gli parlavano del loro tennis, senza riguardo al fatto che avesse vinto Wimbledon); i tentennamenti di Dick Savitt (fortissimo tennista americano spesso discriminato nel suo Paese in quanto ebreo), e il genio tennistico di Pancho Gonzales (l'uomo a cui si affiderebbe la propria vita se si dovesse deciderne il destino attraverso l'esito di una partita di tennis); la classe sublime di Nicola Pietrangeli e la supponenza di Jack Kramer. 
 Se dovessi scegliere tre delle brevi, composite biografie che fanno parte del libro come le mie preferite, opterei per quella di Beppe Merlo, quella di Gussy Moran e quella di Gar Mulloy. Ma è una scelta puramente personale, non dovuta a un'oggettiva superiorità dei passi che riguardano questi personaggi, perché il livello letterario è devvaro notevole in tutte le parti di questo godibilissimo testo. 

Voto. 7    


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